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Sulle tracce del «giovane ignoto» (*)

In Italia scarsa attenzione alle nuove generazioni secondo i dati Istat
di Franco Biancofiore

I dati Istat 2010 dimostrano come in Italia la questione giovanile sia quanto mai grave. Siamo il Paese europeo, secondo solo alla Germania, con il 25% di popolazione anziana. Il 18,7 % degli italiani ha un’età tra i 14 e i 30 anni. Una minoranza non tutelata e non organizzata, quindi esposta – secondo gli osservatori – alla «tirannia» di una schiacciante maggioranza di adulti comunque protetta. Nel mercato del lavoro sono i giovani a subire una marcata discriminazione, pagata con la disoccupazione che ha raggiunto, in Italia, nella fascia d’età tra i 15 e i 24 anni, quasi il 30 %, mentre nel Mezzogiorno la disoccupazione giovanile è pari al 40 % del totale. Sono questi «i veri eroi del nostro tempo», hanno gridato recentemente nelle piazze d’Italia i giovani nel rivendicare i loro diritti. I più fortunati – si fa per dire –, anche se in maggioranza diplomati e laureati, pagano in termini di precarietà. La Legge 30 del 2003 (detta Legge Biagi) doveva nelle intenzioni «realizzare un sistema efficace e coerente di strumenti per migliorare l’inserimento professionale dei disoccupati e di quanti sono in cerca di una prima occupazione». I risultati della legge sono stati ben altri. I precari sono legati alle aziende da svariate e fantasiose tipologie contrattuali. Quelle che sulla carta si presentano come semplici «collaborazioni», in realtà celano veri e propri lavori sottopagati e subordinati, con orari, postazioni e monitoraggio continuo dei superiori. Tanto per fare qualche esempio, ci sono dei giovani impiegati nei call center pagati solo per «contatto utile», cioè per la durata e l'esito della telefonata ricevuta o fatta. Una tipologia di lavoro a «cottimo», come si faceva nelle fabbriche di fine '800. E anche dalle nostre parti la situazione non è diversa. Emblematica la testimonianza di una ragazza di Recanati che in una lettera aperta indirizzata agli adulti diceva di essere «arrabbiata» perché, dopo un lungo percorso di formazione «non risulto pronta per il mondo del lavoro e per la società, pronta ad abbassare il capo per accettare ogni compromesso vendendolo come l’unica soluzione per andare avanti». I dati Istat confermano pure che 7 giovani precari su 10 vivono in famiglia – il migliore ammortizzatore sociale – perché hanno difficoltà a costruirsi una vita autonoma. Non sappiamo però fino a che punto potrà reggere il sistema, vista la mancanza di volontà politica della classe dirigente del Paese che coinvolge maggioranza ed opposizione. Ed inoltre le posizioni corporative e ideologiche di una frangia sindacale solo antagonista come la Fiom peggiorano la situazione. È spietatamente chiaro che alcune scelte sono imposte dai processi di globalizzazione e che la crisi in atto le accentua. Ma questo non deve essere un alibi per nascondere le responsabilità e per non affrontare la sfida. Il problema è strutturale e davvero «politico»: occorre dare voce a chi non ha voce, investire in cultura e in ricerca, lottare contro gli sprechi della «politica politicante» per ricuperare la vera ragion d’essere della Politica, dare un segnale di discontinuità etica per trovare gli strumenti necessari per ri-orientare l’economia al bene comune, anche mediante un patto tra generazioni. «Ciò richiede – come afferma Benedetto XVI – una revisione profonda e lungimirante del modello di sviluppo, per correggerne le disfunzioni e le distorsioni». Occorre perciò, nonostante tutto – continua il papa – uno sforzo libero e responsabile da parte di tutte le forze in gioco, «superare gli interessi particolaristici per affrontare insieme ed uniti le difficoltà che investono ogni ambito della società, in modo speciale il mondo del lavoro».

(*) In «EMMAUS», settimanale d’opinione, n. 17\\30 aprile 2011, pp. 1-9.

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